Sìlarus

rassegna bimestrale di cultura

fondata da Italo Rocco

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

a cura del Prof. Mario Mello, docente universitario:

 

RICORDO DI ITALO ROCCO

 

Conobbi Italo Rocco una cinquantina d'anni fa, nella Scuola Media di Capaccio, della quale era preside e nella quale insegnava mia moglie, allora mia fidanzata.

In quegli anni abitavo a Napoli, ero assistente di Silvio Accame, il grande maestro di Storia greca e romana nella Facoltà di Lettere della Federico II. Quasi ogni sabato da Napoli venivo a Paestum, ospite dei futuri suoceri, e da lì, a mezza mattinata, salivo con una Vespa a Capaccio, per incontrare Geny e riportarla giù dai suoi, naturalmente dopo esserci intrattenuti un po' con la sua zia materna Maria Gaetana, nella cui grande casa, che era stata palazzo baronale e ancora ne conservava i caratteri, la scuola si trovava allogata, al primo piano. Le aule e i corridoi erano stati ricavati alla meglio con basse e malferme pareti di cartone e compensato, che limitavano, secondo necessità, gli enormi spazi delle antiche sale, ancora impreziosite da pavimenti di ceramica d'epoca, con riggiole policrome a ricorrenti ornati, bellissime nel loro sopravvissuto, sobrio splendore e quasi tutte integre, malgrado le vibrazioni del vecchio solaio a travi di legno, le conseguenti sconnessioni, il continuo struscìo dei banchi e il tempestoso accalcarsi dei ragazzi all'uscita.

Ma presto m'accorsi che quelle aule arrangiate d'un paese di collina formavano una scuola di gran pregio, vivissima, feconda, tale da reggere e vincere il confronto con le migliori. Quegli ambienti bui e freddissimi contenevano una famiglia ben ordinata e laboriosa, che sapeva arricchire lo spirito, accendere propositi, dare fondamento ai progetti, ali ai sogni. Erano uno scrigno fidato che riuniva in solidarietà di speranze giovani docenti che s'aprivano alla carriera e giovinetti in fiore, che s'apprestavano al balzo nella vita. Parimenti m'accorsi che quella scuola non sarebbe stata così, senza il suo preside, senza Italo Rocco.

Certo, quelli erano gli anni della rinascita nazionale, delle famiglie unite, del lavoro instancabile, della parsimonia. Era più facile imporre una guida, ottenere consenso su modelli di valore. Era però difficile anche allora meritare fiducia, indicare la via migliore e il modo di seguirla, praticare quel che si chiedeva agli altri di fare.  Su questo terreno, legato alla persona e al suo prestigio più che alla funzione, molti preposti balbettavano e scivolavano, Italo Rocco si trovava a pieno agio, per dote innata. Della sua scuola egli era il motore, l'anima, la mente. Ne era, insieme, padre e madre.

Gli fui presentato già la prima volta che salii a Capaccio per il motivo che ho già detto. Poi, andarlo a visitare divenne quasi una consuetudine, cui anch'egli teneva molto. Né mai più ci perdemmo di vista, anche quando, per il progredire della sua carriera e di quella di Geny, le occasioni di vedersi si diradarono.

Alto, di complessione asciutta e tuttavia imponente, una selva ribelle di lisci capelli neri, il passo lungo e calcato d'un montanaro, semplice, spiccio e diretto nei modi, già a prima vista ispirava considerazione e rispetto. La leggera incurvatura delle spalle, che denunciava i lunghi anni dedicati ai libri e alla scrivania, aggiungeva al suo aspetto un che di spirituale, quasi di solenne. Tuttavia, dominante era soprattutto il volto, aperto e leale, ma forte e volitivo, continuamente animato dai pensieri che nell'animo gli nascevano e si sviluppavano, inseguendosi, intrecciandosi, modellandosi, alla ricerca della via che li incarnasse in concretezza operante.

Negli occhi, vivissimi, tesi, sempre interroganti, pareva affacciarsi la ridda dei progetti e delle idee che nutriva e su cui immancabilmente coinvolgeva l'interlocutore ritenuto adatto a dargli mano. La bocca, naturalmente pronta al sorriso accogliente e all'invito amichevole, mille volte si fermava, rinchiusa, a sollecitare la risposta desiderata, o si torceva risentita nel disappunto per una contrarietà, una delusione, una resistenza. Nel colloquio, era solitamente lui a tenere le fila, essendo per sua indole portato a rendere utile ogni incontro, fondandovi l'inizio d'una collaborazione.

Chi gli stava davanti, sulle prime, subiva con un certo disagio, persino con fastidio, la sua pur signorile preponderanza. Ma, a mano a mano che andava scoprendo la vera natura di quell'uomo, la ritrosia, il sospetto, la chiusura lasciavano il posto all'ascolto sereno, spesso alla condivisione e all'amicizia.

Mai, difatti, egli chiese nulla per sé. Né mai un suo progetto mirò a favorire un singolo. Al centro dei suoi pensieri erano solo i ragazzi che gli erano stati affidati, la loro formazione, il loro avvenire, che sentiva strettamente legato al destino della terra, bella e amara, madre diventata arcigna, da cui erano nati e nel cui seno, tuttavia, ardentemente desiderava potessero restare, per riscattarsi con essa.

Pochi minuti dopo il primo incontro, volle farmi visitare la scuola, classe per classe. Ebbe una parola per tutti, con tono diverso a seconda dell'età e della funzione, appariva informato di ciascuno e d'ogni cosa. Aveva voluto che non solo le ragazze, ma anche le insegnanti, indossassero il grembiule nero, per evitare che l'esibita eleganza di qualcuna di queste offendesse i molti alunni poveri, mortificasse i loro genitori, cui spesso mancava anche il necessario per nutrirsi e vivere. Poi mi accompagnò sulla terrazza che sovrastava la cappella gentilizia del palazzo, dalla quale si dominava il mare, quel giorno scuro e corrucciato, e l'intero golfo, dal Cilento alla costa d'Amalfi  e a Capri, e la campagna disseminata di poderi, dai quali molti dei giovinetti venivano. Rimase a lungo muto davanti a quel quadro, ed io con lui. Credevo che ne contemplasse la bellezza, ne ripercorresse la storia. Solo dopo mi resi conto che la piana distesa lì davanti, da poco strappata ai boschi e alla malaria, gli faceva paura, gli pareva un'arena troppo difficile, quasi mortale, per il combattimento che i suoi ignari allievi presto avrebbero dovuto affrontare per vivere. Tremava per loro, avrebbe dato tutto se stesso per aiutarli in qualche modo.

Queste cose me le disse altra volta, sulla medesima terrazza, dalla quale guardava non un panorama, ma il futuro. "Che faranno questi figli in una terra così povera, mal collegata, con poche risorse e deboli prospettive? A che varrà quel che oggi faticosamente imparano? Lo dimenticheranno, saranno costretti dal bisogno e faranno i contadini, i braccianti, i salariati, come i nonni e i padri, o dovranno andare lontano ad arricchire altre terre e a maledire questa, che un giorno diede la civiltà al mondo. Dobbiamo noi assistere inerti, mentre l'Europa apre nuovi orizzonti?" Così, da un simile ribollire di sentimenti e di sollecitudine nacque "Silarus". Nacque nella scuola, per essere uno strumento a disposizione dei più giovani, una voce che li aprisse al mondo, una palestra in cui misurarsi, confrontarsi, parlare e ascoltare. E cominciò a uscire in lingua francese, perché la collina dei primi contrafforti cilentani si riconoscesse parte viva della nuova Europa, partecipasse delle idee che la stavano facendo nascere. E, insieme, pubblicò pagine, ancora oggi preziose, sul dialetto e sulle tradizioni, perché l'invito ai grandi orizzonti non nuocesse alla conoscenza storica, all'amore per la terra natia, al rispetto delle umili ed eroiche generazioni passate.

Poco alla volta, la rivista si consolidò e cominciò anche a prendere una fisionomia colta e letteraria, aprendosi alle collaborazioni esterne, sempre più ampie e qualificate. Diventò in specie una rivista di poesia.

Nei primi tempi, Italo Rocco non mi parlò mai di poesia, né come autore, né come lettore di componimenti altrui. Immagino, tuttavia, che già scrivesse versi, almeno per sé. Quando cominciò a pubblicarli, li lessi e rilessi con crescente attenzione. Ne cercavo la radice, rimproverandomi d'essermi lasciata a lungo sfuggire la vena che in lui scorreva, varia e omogenea insieme.

Mi sono convinto, a grado a grado, che la sorgente fosse la medesima che alimentava le sue generose giornate di educatore: un'humanitas alacre e calda, intrisa di sentimenti cristiani, e quindi la centralità dello spirito, l'impegno totale per l'uomo come valore assoluto, la fiducia in Dio.

Mi pare, così, che la poesia del mio amico sia come una preghiera: anzi, che tutta la sua vita sia stata una continua preghiera: vissuta nella scuola, col saio di una missione, per elevare i giovani al senso del dovere e ad un futuro di dignità; scritta, cantata nei versi, per chiedere o riconoscere l'aiuto del Padre a sostegno delle deboli forze e delle speranze degli uomini, o per lodarlo nella bellezza degli occhi limpidi di una fanciulla, nel colore e nel profumo delle rose, nell'armoniosa immensità del creato.

 

A cura del Prof. Giovanni Savarese, docente universitario:

 

RICORDO DI ITALO ROCCO

 

Conobbi Italo Rocco agli inizi di maggio del 1995 in occasione del XXVII Premio Letterario Sìlarus, cui partecipai avendo ricevuto la segnalazione per la saggistica.

Avevo avuto con lui soltanto, prima d’allora, un breve colloquio telefonico e un biglietto scritto con sua firma autografa che mi annunciava l’avvenuta segnalazione. Ma la prima volta che ci incontrammo, io giovane da poco laureato e già con la passione per la ricerca, è come se ci fossimo conosciuti da un bel pezzo. Ricordo ancora le sue calde e affettuose parole in occasione della premiazione, il “preside” Rocco si comportò come se di fronte ci fosse un allievo da “tirar su” verso le vie del sapere. In realtà, avevo conosciuto la sua “creatura”, la rivista che da oltre vent’anni dirigeva e amava come una figlia aggiunta ad una famiglia già numerosa, grazie a Piero, amico e collega giornalista.

Italo Rocco era così, un uomo d’altri tempi, in cui la cultura e l’amore per la conoscenza erano valori che permettevano all’uomo di uscire dal suo stato di “feritas” per abbracciare quello di “divinitas” (per usare una formula cara a Gioacchino Paparelli, da lui conosciuto e grande maestro dell’Università di Salerno). In effetti, all’interno della sua produzione scritta, dal Saggio su Dante, Il sistema penale dantesco del 1942, a quello dedicato al mondo della scuola, Spunti di didattica del 1965 alle tante raccolte di poesie, poi confluite nei due volumi de Il canto dell’umanità, ricorre manifesto il tema della “dignità dell’uomo” e della sua centralità nell’universo: Italo Rocco eleva un “canto” all’umanità del XX secolo sottolineando l’importanza della vita e, nello stesso tempo, la gioia di indagarla, conoscerla e amarla fino in fondo perché dono di Dio.

Una gioia di vivere, insomma, che investe l’uomo e la natura, le cose e gli animali, come si legge a chiare lettere nella poesia Adunati da segreto richiamo, che apre la sezione Segreto richiamo de Il canto dell’umanità:

Adunati da segreto richiamo/ gabbiani/ a testuggine romana/ scalano il liquido muro dell’aria/ e scortano dall’alto la motonave./ Sotto la carezza del sole/ s’avvicendano al posto di caporotta/ e con obliquo volo degradante/ a turno planano sullo specchio del mare/ ridente al fiato della brezza. / Rivolano al cielo/ nella luce del tramonto/ e singhiozzano alla gioia del giorno.

Qui non troviamo nessun richiamo al gabbiano deriso di Baudelaire, né al gabbiano di Caldarelli in perpetuo volo verso una irraggiungibile(?) felicità. Tutt’altro. La presenza di Dio, quanta religiosità c’era nel magistero di Rocco, devoto e innamorato del “suo” San Gerardo, è consustanziale alla vita e momento di gioia panica per l’uomo, tanto da diventare forza vitale nella lirica A Cristo, invocato come presente più che mai nella vita di tutti i giorni:

Non fosti storia di ieri o preistoria/ ma sei di oggi domani e sempre/ Cristo/ per chi ti rinnega/ ti dimezza/ o ti accetta.

Chi non segue questo “segreto richiamo” si smarrisce nel “calvario”, nell’alienazione e non ha il tempo di cogliere “l’essenza della vita”. In tutto ciò che ruolo svolge la poesia? Per Italo Rocco la poesia non è solo arte d’imitare o di dipingere le cose che ci circondano allo scopo di muovere gli affetti di chi legge o ascolta, anzi è essa stessa una compagna dell’uomo, spinta per ascendere verso la gioia eterna:

Dammi la mano/ o poesia/ e saliamo sul monte dell’amore. /Il vento ci porterà il suono delle campane/ e l’odore della valle in fiore./ Anima nell’anima/ sarà dolce sognare con te.

Conservo con grande cura alcune sue lettere, da suggerimenti su un Saggio per Sìlarus a semplici auguri natalizi e pasquali, perché anche nelle cose semplici Italo Rocco sapeva essere, allo stesso tempo, un Maestro e un amico. Una persona che parlava ai giovani, capace di gridare con forza che “i giovani d’oggi sono migliori di noi”, basta non fermarsi alle apparenze e “leggere al fondo del loro cuore/ ed ascoltarne il palpito/ evitando l’irrisione del presente/ e l’elogio del passato”. Perciò, la sua è una presenza più che mai attiva, egli continua ad ispirare tutti noi e ad essere “un raggio di sole” che “danza nell’aria e colora di bellezza il creato”.

Direttamente dai suoi versi, dunque, riusciamo a percepirlo anche se risulta difficile comprendere l’intero corpus lirico di Italo Rocco in una cifra o in una formula, come il Nostro stesso ci suggerisce: “Vorresti rinchiuderlo nella mano/ ma furtivo sfugge al lampo della presa/ e sorride dalla loggia del cielo”.

Da qualche anno anche l’Università di Salerno ha conferito la giusta attenzione a Rocco e alla sua rivista. Sono stati, infatti, pubblicati gli Indici di Sìlarus, a cura del prof. Alberto Granese e del dott. Antonio Elefante, frutto di un lavoro di equipe tra docenti e laureandi; inoltre il sottoscritto è stato correlatore di una tesi, assegnata dal prof. Carlo Chirico, docente di Letteratura italiana presso la stessa Università, dal titolo Italo Rocco: un carducciano in terra salernitana.

E’ solo l’inizio, non fosse altro per dare il giusto merito ad un poeta e ad uno studioso che con i suoi versi ha attraversato quasi tutto l’arco temporale del Novecento, lasciando a noi piste ancora da esplorare. Questo è il “nostro” direttore e a me piace ricordarlo così.

 

Nota sulla rivista Sìlarus del Prof. Claudio Angelini:

 

Non i fondamenti della cultura sono oggi il problema, ma l’attualità della cultura, ciò che di giorno in giorno si deve registrare come idea, progetto, programma nuovo sullo sfondo dello scenario nazionale e internazionale, come prodotto dell’incontro e spesso dello scontro di opinioni diverse, tese tutte però alla soluzione di problemi comuni, di natura umana, politica, sociale, culturale nel senso più ampio. Questo ritengo sia di vitale importanza, in un mondo come quello di oggi che si dice globalizzato, termine che prendo nella sua accezione più nobile, cioè mondo che vada alla ricerca dei motivi più profondi e autentici che legano le culture, e di conseguenza gli uomini fra di loro. E l’auspicio che se ne può trarre non è solo fra i più alti e ambiziosi, e cioè che l’uomo rispetti ogni altro uomo perché portatore di esigenze quasi in tutto sovrapponibili alle sue. E’ un auspicio connesso con la sopravvivenza stessa dell’uomo, e di ogni sua cultura. Nei paesi cosiddetti avanzati, infatti, dove vigono criteri di comportamento come quelli del “politicamente corretto” o dell’indifferenza al merito individuale, potrebbe bastare a volte un minimo fraintendimento d’una parola o d’un gesto, provenienti indifferentemente da uno straniero o da un connazionale, per provocare una catastrofe.

Restai favorevolmente impressionato dal modo di proporre cultura, letteraria filosofica sociale, della rivista “Sìlarus” sin da quando, anni fa, mi capitò per la prima volta fra le mani. Debbo riconoscere che fu una lieta sorpresa; forse m’aspettavo d’imbattermi in una rivista provinciale, di quelle che trattano temi e problemi prevalentemente d’ambito territoriale, e che quando provano a spaziare più in alto mostrano d’avere il respiro corto. Poi m’accorsi, conoscendola sempre meglio, che essa era nata con un’impostazione programmatica, impressale dal suo fondatore Italo Rocco, che la distingueva da molte altre riviste consimili. Fu indubbiamente la formazione interculturale e “super partes” del professor Italo Rocco, benemerito delle nostre lettere, a garantire alla rivista “Sìlarus”una posizione preminente e, per l’epoca, d’avanguardia nel panorama dell’editoria giornalistica italiana. Egli si era reso conto, sin dagli anni sessanta, che una rivista letteraria offre il migliore dei servizi al lettore, sia egli un addetto ai lavori o semplicemente un dilettante, quando non solo lo tiene al corrente del dibattito culturale in atto sulla scena nazionale, ma anche delle nazioni senza distinzione, sapendo trascegliere le notizie di attualità e d’interesse generale e stimolando in lui il senso della ricerca e dell’approfondimento. Il tempo gli ha dato ragione. Oggigiorno, coi mezzi che la tecnica mette a disposizione di ognuno, essere informati circa i fondamenti culturali, gli usi e i costumi di qualsiasi popolo della terra, come dicevamo all’inizio, può essere solo questione di volontà. Se il “diverso” da noi suscita ancora sospetto non è davvero perché ci manchino i mezzi per conoscerlo. E’ perché, umanamente parlando, siamo ancora poco disposti ad accettare pensiero, usanze, costumi di genti diverse da noi per lingua, leggi, tradizioni. Ma la nuova cultura, di cui la rivista “Sìlarus” è stata per anni finora portavoce, ha per lo meno rivelato una verità incontestabile: gli elementi, i motivi che accomunano gli uomini, anche i più diversi, sono sicuramente superiori a quelli che li dividono. Chi ama la cultura e lo scambio culturale ama anche l’uomo; ecco che cosa è urgente fare, nell’epoca della cultura globalizzata, ancora irta di problemi e d’incognite, che stiamo vivendo: bisogna avere il coraggio dell’esempio, imparare cioè a rispettare, nel mondo, ogni tipo di cultura, e quindi ad amarla. Ci sentiremo molto più vicini a tanti altri esseri umani. Auguriamo alla rivista “Sìlarus” di continuare a perseguire questo egregio intendimento.